«Il mangiar sano? Semplice: nessuna restrizione, nessuna
teoria sul cibo, nessuna fisima»: è sufficiente «mangiare con moderazione» un «poco di tutto». Ecco la
quintessenza della nuova saggezza popolar-scientifica, il vecchio e
nuovo luogo comune d’apparente buonsenso di
una strana e inusitata alleanza di nonne, madri, medici di base e
perfino dietologi e nutrizionisti con tanto di camice bianco alla tv.
Ma, a proposito di camici bianchi,
attenti a non confonderli con salumieri e macellai, perché qualche
volta, nonostante i tanti soldi che la Comunità ha speso per farli
studiare all'Università e laureare, non sono tanto più credibili di loro.
Che cosa vuol dire "mangiare di
tutto"? Che cosa vuol dire "un poco"? E' chiaro che ognuno se li
aggiusta come vuole. Tutto un poco allo stesso modo, oppure poco in
proporzioni diverse? Capiamo che intendono dire probabilmente che un
errore ogni tanto non deve preoccupare, che gli eccessi o le fissazioni
sono sempre un errore; e soprattutto che vogliono rivolgersi solo alle
persone "semplici"; ma non è così che queste cose vanno dette. Così
esagerano, e rischiano di apparire, anzi di essere più semplici di loro.
Un "poco" di verdure, infatti, è
troppo poco, visto che le direttive OMS sono di "almeno 5 porzioni al
giorno tra verdure e frutta" (interpretate poi da esperti specialisti
come "2 porzioni di frutta" e "almeno 3 porzioni di verdura" al giorno).
Anzi, ci sono studi che dimostrano, vista l'esiguità di ogni porzione
consigliata (per alcuni 100 g di verdure crude, ma per altri solo 50 g),
che "più porzioni se ne consumano, meglio è". E dunque, 5, 6, 7,
perfino 10 porzioni sono possibili in particolari casi, e si ottengono
facilmente col raddoppio delle quantità di verdure cotte e insalate.
Insomma, quel "almeno 5 porzioni" tra verdura e frutta (cioè "almeno 3
porzioni di verdure al giorno") sono non "poco", ma tanto, tantissimo.
Quindi, già un errore grossolano, perché di verdure e frutta bisogna,
invece mangiarne tanto. Se non altro per furbizia dietetica, cioè per
non mangiare al loro posto alimenti ad alta densità energetica o ricchi
di grassi o zucchero. E questo va detto.
E invece un "poco" di carne grassa
cotta alla brace e in alcuni punti carbonizzata, o un "poco" di bibita
zuccherata a pasto, è tanto, troppo. E
i semi oleosi crudi (mandorle, nocciole, noci ecc.) vanno consumati
"poco", anzi pochissimo, quasi mai, come il burro cotto o l'olio fritto
più volte, condimenti a rischio ricchi di radicali liberi, o invece se
ne possono mangiare di più e ogni giorno, visto che sono addirittura
protettivi? E com'è possibile
mettere sullo stesso piano il "poco" di cereali raffinati (anzi, da
consumare il meno possibile, secondo Willett) con il "poco" di cereali
integrali, fondamentali per fibre, sostanze protettive e lenta
assimilazione dei carboidrati? Altrettanto "pochi" questi ultimi? E'
evidente che no.
Ma allora i numerosi cibi negativi,
pur singolarmente "pochi", sommandosi diventerebbero "tanto" e
avrebbero effetti deleteri sulla qualità complessiva della dieta, a
questo punto nel suo complesso non più antiossidante ma a rischio;
mentre i "pochi" cibi favorevoli non avrebbero effetto sulla dieta,
perché non bastanti per neutralizzare i tanti ossidanti.
Insomma, è chiaro che il consiglio
di "mangiare di tutto un poco" è semplicistico, sbagliato,
anti-scientifico, altamente diseducativo, e che al contrario gli
"esperti" (virgolette d'obbligo", perché quello che conta è ciò che si
dice o scrive, non un titolo accademico) devono educare il pubblico e
indicare ai profani una precisa "gerarchia" di alimenti. Chi sa deve
indicare la corretta via, spronare al meglio o correggere, non
legittimare qualsiasi cosa faccia o dica chi non sa. Altrimenti perde
credibilità e il diritto-dovere stesso di consigliare il prossimo.
E non c'è dubbio che questa
gerarchia di valore veda in testa gli alimenti tradizionali, sani e
protettivi ("naturali", come li definiamo noi, in quando scelti
storicamente per prove ed errori come quelli dimostratisi nella Storia i
più adatti alla nostra specie, quindi evidentemente i più "naturali"
per l'Uomo), che vanno consumati in quantità; e in ultimo gli alimenti
più dannosi o a rischio, che vanno consumati di meno, o raramente, o una
volta tanto, o il meno possibile, o anche ignorati.
Soltanto entro questa griglia
logica, che però andrebbe detta chiaramente e ben sottolineata dal
cosiddetto "esperto" in televisione, YouTube, blog, giornali ecc. la
raccomandazione del "mangiare un po' di tutto" (cioè tutti i cibi sani e
protettivi, ben precisati in ordine decrescente: verdure, cereali
integrali, legumi, semi oleosi, frutta, e piccole porzioni di latticini e
uova ecc.) avrebbe un senso. Altrimenti il consiglio non è scientifico,
né fondato, e non fa onore a gente che si è laureata a spese della
collettività. Com'è possibile definire la varietà di alimenti
protettivi, neutri e dannosi in un indistinto "tutto" alla rinfusa,
quando proprio la ricerca scientifica attuale studia ogni giorno le
differenze tra alimento e alimento, e sperimenta l'azione biologica di
ciascuna delle migliaia di sostanze chimiche naturali presenti in ogni
alimento? Sarebbe una mistificazione diseducativa e fuorviante.
Una tale banalità poteva andar bene tra
gli Etruschi e i Romani, iniziatori inconsapevoli della c.d. “dieta
mediterranea” a base di tutti cibi naturali e “riconoscibili” (uniche eccezioni
di prodotti artefatti popolari, pane, lagane o pasta, formaggio e vino), e forse era
legittima ancora fino al Settecento. Ma non oggi, quando a differenza dell’Antichità la maggior
parte dei cibi sono trasformati dall’industria, non più cibi allo stato naturale, ma “prodotti
alimentari” talvolta di composizione complessa. Oggi quando pubblicità e trasporti
nel “mercato globale” permettono a chiunque nel Mondo di mangiare qualunque
cosa, cioè di farsi da sé la propria dieta a immagine di quello che si vede in
televisione, su internet o nelle vetrine dei negozi, facendo inevitabilmente prevalere prodotti
a base di zucchero, sale o grassi, diffusissimi non solo per i sapori così
pieni e appaganti, e lo status symbol promesso dalla pubblicità, ma anche
perché economicissimi (altra differenza con l’Antichità).
In questa Babele
alimentare, se non ci sono regole, guide, consigli seri, precisi e non equivoci da parte
di veri esperti coraggiosi, il cibo cattivo e dannoso (junk food o cibo
spazzatura) finisce per prevalere. A causa dei motivi anzidetti e perché ha dietro di
sé potenti interessi commerciali, a cui dietologi e nutrizionisti, spesso
dipendenti statali, non vogliono o non possono dire di no. Insomma, anche nella
dieta, se non si educano i cittadini fin dalla più tenera età e non si fa propaganda virtuosa, “moneta cattiva
scaccia moneta buona”.
“Mangiare un po’ di tutto”,
“basta la moderazione”, è perciò un pessimo consiglio, diseducativo e
qualunquistico,
che sa tanto di revisionismo cioè di reazione sottoculturale alla nuova
consapevolezza popolare – portata dal movimento del Naturismo fin dal
primo
Novecento – che il cibo è, sì, cultura antropologica e tradizione, ma
solo se
non è troppo diverso da quello (vario) degli Antichi, e come tale può – è
stato
dimostrato – ridurre i rischi (i vecchi naturisti dicevano “previene e
cura”),
ma solo se i cibi protettivi della Tradizione sono o esclusivi o di gran
lunga
prevalenti nella dieta. Non qualunque dieta varia, solo perché praticata
in Italia, è
tradizionale, antica, protettiva, mediterranea, sana; ma solo quella che
noi definiamo per convenzione "naturale". Al contrario, oggi il cibo
cattivo, per
niente tradizionale, è prevalente, e quindi una dieta "variata" senza
regole, non può che essere mediocre o pessima.
Una raccomandazione che suona come una beffa, proprio
oggi che la scienza
sperimentale conferma la convinzione degli Antichi che il cibo è
collegato alla
salute, e che si conferma l'importanza non di una generica "dieta"
mediterranea che non è mai esistita, ma della presenza nella dieta di
ogni giorno di molti singoli alimenti protettivi, tali appunto da
caratterizzare di sé l'intera dieta. Occorre, quindi, dire molti sì e
molti no, altro che allargare le braccia e ripetere "fate voi", come
direbbe un bidello di scuola alle richieste degli alunni. Se l’uomo è davvero
ciò che mangia, è naturale che l’uomo consapevole, salutista e naturista, vorrà
mangiar sano, concentrandosi sui cibi che proteggono ed escludendo il più possibile quelli che
sono a rischio. Non è "fisima", non è "faddism", ma è logica, razionalità, buonsenso.
Fisima è proprio questo luogo comune dietetico di
lunga data che sostiene che sia sufficiente “mangiare un po’ di tutto”, cioè la
“moderazione” generica, senza mai differenziare tra i singoli vari alimenti. Un tale modo di pensare non solo non
è provato scientificamente; ma «è senza concrete prove a sostegno delle
popolazioni», come ha detto la prima autrice di uno studio metabolico pubblicato da
Plos One (e leggibile qui in versione completa), la
biologa epidemiologa Marcia C. de Oliveira Otto, assistente professore del
Dipartimento di Epidemiologia, Genetica umana e Scienze ambientali presso la
School of Public Health di Huston.
Del resto, aggiungiamo, il luogo comune “un
poco di tutto” contraddice anche i risultati di diversi studi sui composti
naturali protettivi e sulle porzioni giornaliere delle verdure, che concludono
affermando che “più se ne consumano, meglio è”. Quindi, come “moderarsi” sui
cibi protettivi è illogico (potrebbero risultare inefficaci, visto che “è la
dose che fa il farmaco”), così è imprudente essere permissivi sulla dieta
allargandola con noncuranza anche alle preparazioni o agli alimenti a più alto
rischio.
Ora questo studio metabolico di
ricercatori dell’Università del Texas (Health Science Center a Houston) e della
Tufts University (Friedman School of Nutrition Science and Policy) dimostra che
la diversità della dieta senza discriminazione tra cibi protettivi e cibi a
rischio può essere collegata a una sua più bassa qualità e a conseguenze
patologiche, come una maggiore circonferenza di vita, una peggiore salute
metabolica, un più alto rischio di diabete, come si legge nel risultato e nelle
conclusioni dello studio.
Innanzitutto, lo studio ha permesso
di delineare nuove caratterizzazioni degli alimenti tenendo conto del conteggio
totale (numero di diversi alimenti consumati in una settimana), e dei criteri
della uniformità (distribuzione delle calorie nei cibi diversi consumati) e
diversità (le differenze delle caratteristiche alimentari rilevanti per la
salute metabolica, come contenuto fibra, sodio o grassi trans), come riferisce
un ampio articolo di commento su Science Daily.
Poi ha utilizzando i dati
provenienti da 6.814 partecipanti allo studio multietnico di aterosclerosi con
soggetti bianchi, neri, ispanici-americani e cinesi-americani negli Stati Uniti. È stata valutata
l’associazione della diversità della dieta al cambiamento del “giro vita”, cioè
la circonferenza tra costole e anche, un indicatore importante del grasso
centrale e della salute metabolica,.5 anni dopo l'inizio dello studio, e ai
casi di diabete di tipo 2 di verificatisi 10 anni più tardi.
Il risultato è stato che
quando si valutavano il totale dei cibi consumati e l’uniformità, non si
osservavano associazioni con l’aumento della circonferenza della vita o
l'incidenza di diabete. Insomma, più uniformità e omogeneità nella dieta era
collegata a risultati migliori. Al contrario, la maggiore differenziazione tra
cibi era collegata a risultati peggiori, e i soggetti con dieta più varia
mostravano un aumento di peso “centrale” e un aumento del giro vita maggiore
del 120 per cento di quelli a dieta con minore diversità tra i cibi, cioè più
uniforme.
Per misurare la “qualità
metabolica” di una dieta meno diversificata sul metabolismo, i ricercatori
hanno utilizzato i punteggi stabiliti dal Dietary Approaches to Stop
Hypertension (DASH) e di Alternative Healthy Eating Index (AHEI). Ebbene, hanno
scoperto che dopo 10 anni la più alta qualità della dieta, cioè quella meno
diversificata, era associata a un 25 per cento circa di minor rischio di
diabete di tipo 2.
La scoperta inaspettata – ha
spiegato la ricercatrice Marcia Otto – era stata proprio questa: che i soggetti
con una dieta più varia in pratica mangiavano meno alimenti sani come verdura e
frutta, e più alimenti poco sani come salumi, dolci e bibite gassate dolci.
«Questo può aiutare a spiegare il rapporto tra maggiore diversità alimentare e
maggiore circonferenza di vita».
«Variety is key? For healthy balanced diet, a uniform food routine may be best». La chiave
è la varietà? Per
una sana dieta equilibrata, una routine alimentare uniforme può essere
la scelta
migliore, titola il sito Medical Daily nel riferire sullo studio di
Otto. Ma sì, una "routine" virtuosa, di soli cibi sani, piuttosto che
uno scomposto svolazzare qua e là, a cercare una completezza che non ha
senso se non è sana e naturale.
Certo, si dirà, ma questo
studio riguarda soggetti Americani, non Europei o Italiani. Ma, innanzitutto, anche
«gli americani con le diete più sane in realtà mangiano una gamma relativamente
piccola di alimenti sani», ha osservato il capo-ricerca senior dello studio, il
medico Dariush Mozaffarian, decano della Scuola Friedman di Scienza e Gestione
della Nutrizione presso la Tufts University di Boston, come riporta su Science
Daily il biologo Nikhil S. Padhye, altro coautore. «E questi risultati –
aggiunge Mozaffarian – suggeriscono che nelle diete moderne, mangiare “tutto
con moderazione” è in realtà peggiore che mangiare un minor numero di cibi sani».
La tendenza, perciò, come
avevamo intuito da sempre, è generale. Perché è la psicologia umana che spiega
la tendenza di una alimentazione molto variata, da interpretarsi
inevitabilmente come libera e senza freni, a includere o sperimentare anche il
negativo, o sempre più il negativo (cibo dannoso accettato con la scusa del
gusto, della socializzazione ecc.) rispetto al positivo (cibo salutare, visto
come costrizione ed emarginazione).
Come concludere? È sbagliatissimo,
diseducativo, limitarsi a negare ogni selezione nutrizionale e salutistica tra
i cibi, e consigliare, come ripeteva la nonna e oggi perfino il medico di base,
la dietologa della ASL e il nutrizionista negazionista da tv (tanto da essere
entrato nell’uso comune), di “mangiare un po’ di tutto”. Perché in tal modo cadono
le difese psicologiche e i criteri logici selettivi tra “cibo buono” e “cibo
cattivo” (anche presunti, anche esagerati fino a diventare fisime, anche sbagliati,
ma sempre positivi perché mettono in funzione il senso critico, l’auto-controllo,
e un certo grado di “perfezionismo”, al limite anche distorto, del soggetto; che
è sempre meglio della passività totale, del nulla critico). Perché in quel “tutto”
indistinto finiscono per prevalere – essendo più numerosi, più pubblicizzati e
più seducenti – i cibi peggiori.
Non siamo tra gli Etruschi: oggi nel “tutto”
del consiglio di “mangiare un po’ di tutto” ci sono merendine e salatini,
tramezzini del bar e wurstel, hamburger e stracotti, salse e creme spalmabili, pane
bianco raffinato, pizze di farina 00, biscotti e cornetti, gelati e caramelle,
salumi e dolci pieni di zucchero-amido-burro (o margarina). Anche la nostra
pizza napoletana, purtroppo molto diversa da quella originale, creata quando
non esisteva la farina 00, fa parte del junk food che W.Willett di Harward pone
in cima alla sua Piramide alimentare e raccomanda di “consumare il meno
possibile”, come se fosse zucchero. Senza contare i tanti cibi sottosale, e l’eccesso
di carne, pure cotta ad altissima temperatura, bruciacchiata, con tanto di
strisce nere, e i salumi obbligatori negli antipasti, residuo inspiegabile di
quando erano solo un modo di conservazione della carne, in assenza di
frigoriferi.
Quando si dice “tutto”,
perciò, si deve pensare, specialmente se si è "esperti", docenti,
ricercatori o divulgatori, che ci si riferisce inevitabilmente anche ai
cibi spazzatura o junk
food, che oggi sono la maggior parte del cibo presente ogni giorno. È
grave perciò che oggi, con la fame che abbiamo di cibi antiossidanti
(l’eccesso
di cottura e la lunga conservazione li riduce o distrugge) e col pessimo
cibo
industriale che avanza, alcuni “esperti” vestiti di camice bianco, che a
veder
meglio non sono né salumieri né droghieri ma dietologi o nutrizionisti; e
magari anche docenti, continuino a raccomandare di non badare alle
“teorie
salutistiche” e di “mangiare un po’ di tutto”. Che li abbiamo fatti
studiare a fare?
Ma che cosa aggiungere di positivo e propositivo? Che consigliare di “mangiare
variato” (“e completo” bisogna aggiungere) si può, anzi è corretto, solo quando
la raccomandazione si riferisce esplicitamente a un quadro di riferimento
razionale, quello dell’alimentazione tradizionale e naturale che ha visto
formarsi la nostra grande Civiltà e che ora, dopo tanti errori dietologici del passato, la
scienza “riscopre” e sembra far sua. Insomma, la varietà si deve misurare solo col cibo sano e protettivo,
che bisogna già conoscere, e ovviamente nelle quantità e proporzioni
sensate ammesse dalla scienza oggi. Quindi sbaglierebbe, per fare un
esempio balzano, ma non inventato, lo pseudo-salutista da palestra che
accanto a enormi quantità di verdure, frutta e cereali integrali (gli
antiossidanti sono di moda nelle palestre...), dopo varie uova senza
tuorlo e pesce, ingurgitasse anche una o due bistecche al giorno,
imbottito com'è di false teorie sulle proteine.
Una buona regola psicologica per realizzare bene la varietà della dieta è la riconoscibilità dei cibi. Anche oggi che, per fortuna, accanto al junk food i
cibi integrali e-o antiossidanti sono aumentati di numero. Ma che siano
riconoscibili, a cominciare dai cereali integrali e legumi (e qui la
massima
diversificazione e varietà è non solo consentita ma doverosa): meglio
chicchi e semi allo stato naturale, piuttosto che preparati o prodotti
complessi e misteriosi, per i quali occorre addirittura la composizione
con gli ingredienti. Ma chi richiede i chicchi di grano, tenero o duro
che sia, al naturale? Nessuno, neanche i fissati del farro o del kamut.
Ebbene il grano è lo stesso, ma costa la metà.
E molto meglio un buon piatto di
ceci preparato da noi che le proteine di soia o altre proteine estratte
artificialmente. Spaventa così tanto la cottura? Non capiamo davvero:
abbiamo già dimostrato che cuocendo insieme anche solo 500 g di legumi
in pentola a pressione (sistema naturalissimo, il vapore a pressione, e
meno distruttivo della lunghissima cottura nel coccio), il tempo di
cottura per porzione dei legumi è inferiore a quello medio della pasta:
5-6-7 minuti!
E ancora, meglio
una
terrina di ottimo riso integrale rosso o nero Venere che le gallette di
riso
soffiato industriale, quand’anche fosse “biologico”. E' inutile, tempo
perso, farsi il pane in casa come se fosse chissà quale gesto
naturistico, e poi usare la farina raffinata 00 o 0, privata di
fondamentali sostanze protettive, che Willett giustamente equipara al
cibo spazzatura da consumare "il meno possibile" (arriva tardi: noi lo
dicevamo già negli anni 70). E riscopriamo non solo tutti i cereali
integrali, ma soprattutto quelli più antiossidanti o protettivi, come
saraceno e
avena. Usiamo le semplici tecniche di ieri, come i chicchi di grano
tenero germogliati, che permettono di mangiarlo crudo, più salutare
ancora, per la moltiplicazione enzimatica e la maggiore digeribilità. E
le decine di legumi
diversamente colorati, tutti rigorosamente con la buccia, ricchissima di
polifenoli e anti-enzimi anticancro e anti-lipidi.
La medesima varietà deve esserci
tra le
verdure e gli ortaggi: non è possibile limitarsi alla banale lattuga,
poco vitaminica e poco dotata di antiossidanti, bisogna "fare domanda",
cioè richiedere al venditore le insalate scure, le verdure che si
possono mangiare crude di colore verde scuro o rossastro o giallo. A
forza di chiederle ci saranno sui banchi. Non è possibile che la
migliore verdura da consumare cruda, il crescione,
non si trovi. E di ortaggi verdi, rossi e gialli, più ce n’è a tavola -
non solo in quantità, ma anche in tipi e varietà - meglio è. Non farsi
mai mancare nel pasto spezie, erbe aromatiche e i bulbi
delle liliacee (cipolla, aglio), e neanche i più vari tipi di frutta. In
quest'ultimo caso, però, senza eccedere oltre le 2-3 porzioni al
giorno: lo
zucchero resta tale anche quando è nella frutta. Non ce n’è alcun
bisogno nell’organismo,
poiché per la fornitura dell’essenziale glucosio basterebbero gli amidi.
Ricordiamoci sempre che serve più che altro al piacere e al gusto, a
meno che non si debba fare esercizio fisico immediato. E anche le
porzioni quotidiane previste per i latticini e le uova. Per i naturisti
e salutisti non vegetariani pochissima carne e non troppo cotta (una
volta a
settimana era il rito antico dei contadini abbienti); per i salutisti
onnivori è meglio il pesce, pur con tutti i suoi problemi e rischi.
Quando
scrivevo il manuale L’Alimentazione Naturale per la Mondadori
(così fu creata l’espressione che avrebbe poi avuto così tanto successo
da essere usata anche dagli imbroglioni o dai fanatici delle varie
sètte, oltre che dalla pubblicità), calcolai con approssimazione per
difetto che i cibi a disposizione di un naturista
fantasioso e appassionato oggi possano superare i 500. Ne abbiamo da
scegliere e da abbinare! Più ne inseriamo nella
nostra dieta quotidiana, meglio è. Ma con le regole ben note. Evviva la
bio-diversità, ma nel naturale!
FONTE: http://alimentazione-naturale.blogspot.it
RIFERIMENTO
DE OLIVEIRA OTTO MC, PADHYE NS, BERTONI AG, JACOBS DR,
MOZAFFARIAN D. Everything in Moderation - Dietary Diversity and Quality,
Central Obesity and Risk of Diabetes. Plos One 2015; 10 (10): e0141341 DOI:
10.1371/journal.pone.0141341
Riassunto. Diet guidelines recommend increasing
dietary diversity. Yet, metrics for dietary diversity have neither been
well-defined nor evaluated for impact on metabolic health. Also, whether
diversity has effects independent of diet quality is unknown. We characterized
and evaluated associations of diet diversity and quality with abdominal obesity
and type II diabetes (T2D) in the Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis. At
baseline (2000–02), diet was assessed among 5,160 Whites, Hispanic, Blacks, and
Chinese age 45–84 y and free of T2D, using a validated questionnaire. Three
different aspects of diet diversity were characterized including count (number
of different food items eaten more than once/week, a broad measure of
diversity), evenness (Berry index, a measure of the spread of the diversity),
and dissimilarity (Jaccard distance, a measure of the diversity of the
attributes of the foods consumed). Diet quality was characterized using aHEI,
DASH, and a priori pattern. Count and evenness were weakly positively
correlated with diet quality (r with AHEI: 0.20, 0.04), while dissimilarity was
moderately inversely correlated (r = - 0.34). In multivariate models, neither
count nor evenness was associated with change in waist circumference (WC) or
incident T2D. Greater food dissimilarity was associated with higher
gain in WC (p-trend < 0.01), with 120% higher gain in participants in the
highest quintile of dissimilarity scores. Diet diversity was not associated
with incident T2D. Also, none of the diversity metrics were associated with
change in WC or incident T2D when restricted to only healthier or less healthy
foods. Higher diet quality was associated with lower risk of T2D. Our findings
provide little evidence for benefits of diet diversity for either abdominal obesity
or diabetes. Greater dissimilarity among foods was actually associated with
gain in WC. These results do not support the notion that “eating everything in
moderation” leads to greater diet quality or better metabolic health.
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